@ anonimo
Il bebop mi è sempre piaciuto. Molto.
Mio padre era un discreto appassionato di jazz, ed aveva una piccola ma scelta discografia in cui accanto a Sinatra, Benny Goodman e qualche altra orchestrona di swing, il bop primigenio, duro e puro, aveva un posto di riguardo.
Però il mio primo, timido approccio al jazz “suonato” avvenne dopo essere stato fulminato dallo sceneggiato televisivo di Pupi Avati “Jazz Band”, messo in onda sulla vecchia cara RAI 1 nel 1978; quindi i miei acerbi esperimenti erano ovviamente in salsa dixieland, un miscuglio un po’cacofonico di Gershwin, Morton, ragtime e più tardi Earl Hines.
Ma continuavo cocciutamente ad ascoltare bebop: Parker, Gillespie, Monk, Fats Navarro, Clifford Brown (sì, mi piace la tromba), Bud Powell… però non capivo come si faceva a suonarlo.
Mi comprai decine di libri (internet non c’era ancora), e le mie idee si fecero ancor più confuse: studiare i patterns, il rapporto tra modi ed accordi, l’armonia funzionale, il lydian chromatic concept, tensione e risoluzione di Johnny Amadie... non ci capivo più niente!
Un amico mi suggerì quella che secondo lui era la strategia più fruttuosa: trascrivere ed analizzare gli assoli di Parker, magari aiutandosi con l’Omnibook; cosa che feci e che in effetti non fu del tutto inutile, alcuni concetti li interiorizzai, ma quello che non riuscivo a fare era costruire una frase completa, perfetta, melodica e filante: in poche parole, le mie frasi erano accrocchi contorti di tensioni e risoluzioni senza né capo né coda, piene di tre o quattro clichés parkeriani ripetuti all’infinito…insomma, roba noiosa e poco musicale.
Fosse la frustrazione, fosse la gioventù e la voglia di essere “cool”, mi rivolsi allora al modale più spinto (con punte quasi free jazz); nonostante il tutto fosse, col senno di poi, piuttosto aleatorio, pesante e pretenzioso, imparai dei concetti importantissimi, come la costruzione della frase con il principio della ripetizione/variazione, la capacità di gestire l’architettura complessiva di un assolo, il lirismo e la struttura…ma bebop, niente…non ci riuscivo proprio.
Sfortunatamente, i miei successi come “pianista moderno” (invito ad Umbria Jazz, crescenti richieste di suonare nei localini e nei jazz club liguri, sfrontata adulazione di un paio di giornalisti musicali “modernisti”) mi avevano stupidamente fatto sentire “arrivato”, e il mio vecchio amore per il bebop lo misi in soffitta ad ammuffire insieme ad altri sogni ormai da tempo abbandonati.
Il primo punto di svolta avvenne quando ebbi la grande fortuna di incontrare Andea Pozza, il quale, con estrema generosità e gentilezza, mi fece ragionare sui punti forti e su quelli deboli del mio modo di improvvisare e mi fornì un paio di strategie estremamente valide per migliorare; soprattutto quella che a me risultò veramente utile fu l’esercizio del “walking man”, ovvero il battere i quarti con la mano sinistra e suonare le frasi con la destra con l’idea del relax di un uomo che va a zonzo senza pensieri.
Questo esercizio in apparenza stupido e banale sortì due effetti incredibili: lo swing ed il senso ritmico aumentarono esponenzialmente, ma migliorò anche la capacità di costruire frasi più articolate e musicalmente valide, forse per il senso di sicurezza e spazio offerto dal sentirsi perfettamente “appoggiati” su un ritmo che scorre leggero e senza sforzo, forse per il fatto che l’attenzione era focalizzata sulla pulsazione ritmica e le frasi uscivano in maniera quasi “subconscia”.
Grazie infinite!! È davvero molto bello che tu condivida il tuo pensiero musicale e pur non interessandomi assolutamente il jazz o il bebop ho trovato molto interessante quello che hai scritto. Grazie ancora!